Wengen, 17 gennaio 2016. Seconda manche dello slalom di Coppa del Mondo. Diciassettesimo il norvegese Leif Kristian Haugen, diciottesimo il connazionale Espen Lysdahl, ventitreesimo il canadese Erik Read, DNF il canadese Trevor Philip. Basta questo dato, su uno dei pendii mondiali più insidiosi per i rapid gates, per comprendere il livello raggiunto dallo sci nelle università statunitensi. I quattro atleti, infatti, hanno studiato e si sono allenati negli ultimi cinque anni alla University of Denver e Trevor Philip è ancora uno studente del college. A conti fatti più del 10% dei pettorali della seconda manche di uno degli slalom mitici del circuito proveniva da questa università privata. «Il lavoro che facciamo nei college americani non ha paragoni in nessuna parte del mondo e l’investimento sui giovani talenti è probabilmente superiore a quello della maggior parte dei team nazionali» dice Andy Leroy, classe 1975, head alpine coach dei Denver Pioneers, la squadra agonistica dell’università, con 23 titoli nazionali universitari, più di ogni altro college, e con un passato nello US Ski Team (8 pettorali di Coppa del Mondo in slalom, Olimpiadi di Nagano 1998, 6 podi in Nor-Am Cup, tutti in slalom).

BUDGET A CINQUE ZERI – Circa 800.000 dollari, poco più di 700.000 euro. Questo è l’investimento che una università come quella di Denver, che partecipa al circuit NCAA (National Collegiate Athletic Association), che riunisce 1.121 college e università negli Stati Uniti, fa negli sport invernali. Un valore che corrisponde al numero massimo delle scholarship che ogni college può assegnare, che comprende però anche lo sci di fondo e corrisponde a 7 femminili e 6,3 maschili, per una valore medio di 60.000 dollari. Ma cos’è esattamente la scholarship? In pratica la retta dell’università, dell’alloggio, il costo degli allenamenti e dei trasferimenti. Significa che ogni università può spesare gli atleti più validi. «NCAA stabilisce il numero massimo di scholarship per sport, indipendentemente dal costo che varia da università a università, ma non è detto che tutti i college utilizzino completamente questa quota e inoltre è raro che ci sia una copertura del cento per cento, perché si può assegnare anche un rimborso in percentuale, per esempio del 50% o dell’80% della scholarship» aggiunge Leroy. Esistono università molto diverse tra loro, pubbliche o private, come quella di Denver, con costi e dimensioni che variano. A Denver, per esempio, ci sono 4.000 studenti e corsi anche con soli 15 studenti, contro le centinaia di iscritti a lezione di altri campus.

STUDIO E SPORT – Conciliare sport ad alto livello e studio è impresa ardua, lo sanno bene i molti sciatori italiani che hanno fatto e continuano a fare immensi sacrifici. Visto da fuori il mondo delle università americane sembra un paradiso, ma è così? «Le piccole dimensioni e la flessibilità, con un maggiore impegno scolastico nel mesi senza neve, l’utilizzo della tecnologia a distanza, la possibilità di avere professori che seguono gli atleti nelle trasferte e soprattutto corsi con pochi studenti sono il vantaggio della Denver» dice Leroy. Nella città dove ha trovato fortuna con le scarpe da basket Danilo Gallinari non si fanno sconti sul lato scolastico. «Sci e studio sono sullo stesso livello, selezioniamo con molta attenzione i possibili candidati in base al loro curriculum scolastico a livello di high school (il nostro liceo), vogliamo sciatori intelligenti, perché se devono perdere troppo tempo per supplire alle carenze formative ne avranno poco per diventare dei buoni sciatori, in altre università hanno altri metri di giudizio». Già, ma uno Junior italiano che volesse provare l’accoppiata sci-università negli States, cosa deve fare? «Raramente cerchiamo noi gli sciatori, ci basiamo piuttosto sulle richieste che arrivano via email. Successivamente facciamo una
approfondita analisi sul livello scolastico e sui risultati sportivi e con gli italiani ci siamo sempre trovati bene, sono ottimi sciatori, da noi è passato anche il cugino di Kristian Ghedina, Francesco». L’approccio è molto graduale. Il consiglio di Andy è quello di organizzare una vacanza a fine stagione, magari abbinando qualche gara, e iniziare a conoscere i coach e l’ambiente. «Bisogna capire se il posto dove si vivrà per quattro anni è di proprio gradimento e poi, conoscendo di persona gli studenti-atleti, anche noi possiamo fare le nostre valutazioni, magari anche parlando con i genitori e valutando gli aspetti del carattere». Si ragiona su un percorso di quattro anni e anche le percentuali di scholarship rimborsate possono variare di anno in anno in funzione di impegno e risultati, ma non in maniera eccessiva perché l’obiettivo è di portare l’atleta studente alla fine del suo percorso formativo e sportivo. Naturalmente ci sono anche studenti che partecipano al cento per cento alle spese.

LO SCI – Il livello sciistico dei circuiti universitari americani è vario. «Si va da atleti senza punti FIS ad altri che ne hanno cinque o sei, diciamo che a Denver i top corrispondono al livello di una squadra nazionale B, il nostro target sono i 6 punti FIS e una posizione vicina al trentesimo posto del ranking mondiale, per arrivare oltre ci vuole qualcosa in più, bisogna sciare sulle piste di Coppa del Mondo, allenarsi a Kitz e Wengen, ma con l’esperienza acquisita nei quattro anni da noi si può poi fare il salto». Chi fa parte dei team partecipa sia alle gare NCAA che a Nor-Am o FIS in funzione del livello. «Il nostro lavoro è discrezionale perché per accedere al circuito non sono necessari punti o qualificazioni». Uomini e donne si allenano insieme, anche se con modalità diverse. «Qualche volta, magari in gigante, sciano insieme, generalmente andiamo nella stessa località, a Vail o a Loveland, ma su tracciati con training specifici, però facciamo gruppo». Il circuito NCAA prevede solo gigante e slalom, velocisti astenersi. «Facciamo qualche allenamento di velocità, giusto per mantenere la destrezza, ma non possiamo dire di avere uno speed program» conclude Andy.